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L'ARLECCHINO D'ORO
MARCEAU: IL FIORE DEL MIMO di Marco De Marinis (Università di Bologna)

Marcel Marceau
Jean Dorcy ha scritto che, con Marceau (nato nel 1923), il mimo "si arricchisce di un creatore: creatore di mimodrarnma, e di un interprete i cui procedimenti allargano il dominio" di questo nuovo genere. Ma a ben vedere è riduttivo limitare l'importanza di Marceau all'ambito del mimo, "dimenticando - è Eugenio Barba a osservarlo - il modo in cui ha contribuito a fare accettare l'idea che spettacolo non era solamente interpretazione di testi" o come "abbia influito immensamente su molti uomini e donne di teatro del dopoguerra", a cominciare da Grotowski, che nei primi anni Sessanta ne fu molto colpito (mentre non conosceva ancora Decroux), al punto da lavorare sulla marche contre le vent, celebre "pantomima di stile", sia per Akropolis che per Il Principe Costante.
In ogni caso, è grazie a Marceau che la nuova arte mimica raggiunge il successo, passando dagli sparuti aficionados di Decroux, il suo maestro (fra '44 e '47), alle vaste platee internazionali di Bip.
Anche Barrault si era posto il problema di come dare un pubblico al mimo corporeo e aveva creduto di risolverlo semplicemente negandolo quale forma artistica autonoma e utilizzandolo in vari modi e a vari livelli nello spettacolo parlato. Marceau, allo stesso scopo, imbocca una strada completamente diversa; egli difende, e anzi esaspera per certi versi, la scelta del mimo quale genere autosufficiente ma cerca di farne, appunto, un'arte "popolare", in primo luogo reimmettendovi gli ingredienti principali della pantomima ottocentesca, drasticamente espulsi dalla rifondazione di Decroux: un eroe fisso, una storia (e più spesso un aneddoto) da raccontare, un'imitazione illusionistica di persone, oggetti, azioni, un uso generoso di emozioni e sentimenti (mentre, su di un piano più tecnico, vanno ricordati: la restituzione del primato espressivo al volto e alle mani, la riproduzione dilatata dei moduli del comportamento quotidiano, persino il ritorno, a volte, alla trasposizione delle parole in gesti).
In particolare, è l'identifìcazione il procedimento base sul quale si impernia il mimo di Marceau. "C'è nell'arte del mimo - scrive nel 1957 - l'arte dell'identificazione dell'essere con gli elementi che egli ricrea intorno a lui". Di conseguenza, al mimo oggettivo, caratterizzato dai "movimenti meccanici puri che nascono dagli oggetti", egli preferisce il mimo soggettivo, i cui movimenti "si riferiscono ai caratteri e alle passioni dell'essere umano e che [...] risultano parimenti dall'identificazione di se stessi con tutti gli elementi". L'identificazione come tecnica mimica è a sua volta la condizione principale (anche se non unica) per l'identificazione dello spettatore nell'attore, o più esattamente nell'Eroe che questi incarna ("lo spettatore - spiega ancora - ha bisogno di eroi, ha bisogno di fissarsi su di un personaggio perchè vuole identificarvisi").
Tuttavia Marceau ha sempre saputo bene che l'adesione dello spettatore non potrà mai essere completa e duratura se all'immedesimazione emotiva, empatica, non si aggiunge anche la comprensione, cioè quella che potremmo chiamare l'immedesimazione intellettuale, o cognitiva. Ecco allora che, quanto Decroux cerca di spiazzare costantemente lo spettatore, proponendogli "presenze" enigmatiche, forme astratte e alIusive che frustrino il suo bisogno di riconoscimento, altrettanto Marceau, non casualmente, fa proprio della comprensibilità/leggibilità la sua preoccupazione principale.
Per lui il mimo non può che lavorare sui segni convenzionali, e in particolare sui segni tipici (cioè caratteristici di determinate epoche storiche, civiltà, ambienti sociali, categorie professionali e così via), per farli assurgere, mediante procedimenti di stilizzazione (per essenzializzazione o per amplificazione), a livello di simboli, riscattandoli così dalla loro eventuale inesteticità, da un lato, e soprattutto dall'inevitabile caducità in quanto costrutti culturali, dall'altro.
Come il teatro, nella cultura occidentale, si è posto prevalentemente, e si pone ancora, quale museo della parola e dei testi scritti, dal lavoro e dalle affermazioni di Marceau pare delinearsi l'immagine di un mimo quale museo dei gesti e dei comportamenti non verbali di un'intera civiltà, e addirittura di più civiltà, come il luogo in cui, per esempio, gli atteggiamenti ormai desueti del grande principe del foro possono essere ammirati anche dopo che nella realtà sono scomparsi da tempo.
Mentre Decroux elabora tutta la sua grammatica e la sua estetica in assenza dello spettatore (almeno di quello reale, empirico), o addirittura contro di esso, è sempre e soltanto in relazione al e a favore del pubblico dato, anche nella sua qualificazione più modesta e indifferenziata, che Marceau attua tutte le scelte decisive nel corso della propria carriera.

È notazione sostanzialmente concorde da parte degli spettatori quella relativa al progressivo prevalere, nel Marceau solista, del compiacimento per l'aneddoto e del gusto della situazione stereotipata e del déjà vu. Ma non è stato sempre così. Le cose andavano molto diversamente nei mimodrammi collettivi allestiti con la sua compagnia tra la fine degli anni quaranta e la metà del decennio successivo: da Je suis mort avant l'aube (1948) a Le manteau (1951), unanimemente ritenuto un vertice nella carriera del nostro artista, da Le duel dans les ténèbres (1952) a Le mont-de-piété (1956), per non citarne che alcuni. Come ha scritto Yves Lorelle, "questi mimo drammi dei primi anni ci lasciano il ricordo di un creatore che non aveva ancora attestato rigorosamente la sua tematica a metà strada fra Pierrot e Charlot, e che non si contentava di cogliere a piene mani i fiori secchi della pantomima, ringiovanendola alle fonti del mimo corporeo".

Marcel Marceau
Per quanto riguarda poi, in particolare, Le manteau, i giudizi positivi e spesso entusiastici non si contano: se Jean Dorcy lo ha definito "l'opera più robusta, più ispirata, più ricca d'invenzione" di Marceau, Frank Jotterand, all epoca di una ripresa dello spettacolo, ebbe a scrivere, addirittura, che Le manteau bastava da solo a giustificare una forma artistica. Il mimodramma tratto dal racconto omonimo di Gogol è stato anche quello che ha avuto il maggior successo di pubblico: un migliaio di rappresentazioni fra il 1951 e il 1961. Ma in quegli anni, con la sua troupe, Marceau ha allestito e portato in giro per il mondo oltre una ventina di mimodrammi. Nel 1959, nonostante il buon esito di Paris qui rit, Paris qui pleure, per sei mesi in cartellone a Parigi, egli fu costretto a sciogliere la compagnia per mancanza di finanziamenti. Una seconda formazione si raccolse intorno a lui nel 1963 per allestire Don Juan, un mimodramma molto ambizioso che egli aveva tratto dal testo di Tirso de Molina con la collaborazione di André Laszlo. Dopo il clamoroso insuccesso di Don Juan, anche questa nuova compagnia si separò.
Ne conseguì il passaggio definitivo di Marceau allo one-man show, grazie al quale, del resto, egli era già diventato un artista universalmente acclamato.
È superfluo ricordare che l'abbandono, a partire dal 1964, del lavoro di gruppo rappresenta una cesura molto importante nella carriera del grande mimo. Se, da un lato, l'attività en solitaire è sembrata fortunatamente aiutare la tendenza a un certo prosciugamento stilistico, dall'altro essa ha anche accentuato quel compiacimento nel bozzetto e nella situazione stereotipata di cui si diceva sopra, complice anche un sempre più deciso richiamarsi alle atmosfere della pantomima ottocentesca e alla comicità del cinema muto.
Non a caso, il trionfo dell'aneddoto e la "resurrezione" della harlequinade si realizzano entrambi nelle "pantomime di Bip", scenette di vita quotidiana e avventure che hanno per protagonista il sentimentale personaggio-maschera inventato fin dal 1947. Marceau stesso ha raccontato che l'idea gli venne dopo aver visto il celebre film di Marcel Carné Les Enfants du paradis e che la maschera di Bip, dal viso bianco al trucco degli occhi e al costume, nacque come un adattamento di quella di Baptiste-Barrault. Il nome deriva invece dal Pip delle Great Expectations di Dickens. Ma la lista degli antenati, o semplicemente dei fratelli maggiori, è molto più lunga: oltre a Pierrot, e soprattutto a Charlot, egli cita gli altri grandi comici del muto, il clown Augusto e poi addirittura Don Chisciotte, Don Giovanni e Faust. Basterà elencare i titoli di alcune delle oltre quaranta pantomime di Bip create dal nostro per farsi un'idea più che sufficiente del tipo di situazioni e di temi che esse propongono: Bip dans une soirée mondaine, del 1947, Bip et le parapluie e Bip dans le métro, del 1949, Bip patine e Bip et son chien, del 1952, Bip se suicide, del1954, Bip au bal, del 1955, Bip musicien des rues, del 1957 , Bip gardien d'enfants, del 1959, Bip matador, Bip soldat e Bip cherche du travail le jour de l' an, del 1965, Bip pompier e Bip dans la vie moderne et future, del 1969 - e inoltre (fra le più recenti, che mostrano una evidente predilezione per il gioco metateatrale): Bip illusioniste, Bip rend hommage aux acteurs du muet, Bip joue Faust, Bip vedette d'un cirque ambulant, Bip charlatan.
Nonostante l'ambizione del suo creatore di farne un simbolo universale, addirittura un archetipo, Bip fatica spesso a liberarsi da contrattempi, inciampi, difficoltà sempre
uguali, che si ripetono all'infinito, producendo gags spesso un po' prevedibili, che solo la straordinaria maestria scenica di Marceau può rendere ancora efficaci a distanza di tanti anni. Fino al 1964 le scenette di Bip hanno fatto parte del primo tempo dello spettacolo di Marceau, insieme alle pantomime di stile (di cui parlerò fra un momento). Il secondo tempo invece era costituito da un mimodramma. Ovviamente, con lo scioglimento della compagnia in quell'anno, i mimodramrmi scompaiono a lungo dal suo programma e in repertorio restano soltanto i due tipi di pantomime, presentati per decenni dal fedele Pierre Verry.
Le pantomime di stile consistono in dimostrazioni tecniche ed esercizi mediante i quali, situandoli in apertura dello spettacolo, egli si propone di "iniziare" il pubblico all'arte del mimo. Come ha dichiarato lo stesso Marceau, "si tratta di una lezione di cose, per così dire; di studi del movimento, come fa un pianista quando esegue degli studi di Chopin, che sono dei pezzi molto difficili". È anche vero, però, che questi esercizi - almeno da un certo momento in poi - vengono rielaborati, o addirittura concepiti fin dall'inizio, per essere mostrati in scena e quindi tendono inevitabilmente a porsi come brevi azioni drammatiche, rivelando non pochi punti di contatto (non soltanto linguistico-espressivo) con le scenette di Bip. Naturalmente, in un repertorio di più di una sessantina di pezzi, che coprono un arco di oltre cinquant'anni sono rintracciabili fasi diverse e notevoli cambiamenti (lo stesso discorso vale, nonostante tutto, anche per Bip).
Le primissime pantomime di stile risalgono all'epoca dell'apprendistato con Decroux e riprendono improvvisazioni del maestro e di Barrault o ne propongono di nuove, servendosi delle tecniche messe a punto dai due (mi riferisco qui a numeri celebri, come la già citata Marche contre le vent, La marche dans l'eau, L'escalier, Les tireurs de corde, tutti del 1945). La tappa successiva è stata quella delle prime creazioni interamente originali, basate sull'utilizzazione sempre più personale e disinvolta della grammatica decrouiana. In questi nuovi "studi", Marceau da un lato mette a punto, per la prima volta, le tecniche per rendere il metamorfosamento continuo (in dissolvenza incrociata) degli oggetti e dei personaggi, mentre dall'altro, servendosi in maniera virtuosistica del contrappeso, dà vita alla pantomima illusionistica. Questa seconda tappa - continuando a seguire la ricostruzione proposta dallo stesso Marceau - si conclude con Le fabricant de masques, del 1959, e La cage, del 1962 (due piccoli capolavori, nati entrambi dalla collaborazione con Alejandro Jodorowski), e inoltre con Le Tribunal (1961), Contrastes (1962) e Les bureaucrates (1966): pezzi nei quali gli esercizi di stile sono onnai compiutamente cresciuti in veri e propri microdrammi satirici o tragicomici. In seguito Marceau ha puntato decisamente al fantastico, all'onirico, all'allegorico, addirittura al filosofico, con risultati non sempre all'altezza delle ambizioni, che erano (e tutto sommato sono ancora) quelle di "mettere l'accento sulla nostra epoca violenta e sulla banalizzazione del crimine" e di produrre dei "tentativi per restituire l'uomo nella sua nobiltà dopo la discesa agli inferi": si pensi a Les mains, La création du monde e Ombre et lumière, del 1968, a La révolte de l'automate, del 1969, a Le rêve, del 1970, a Le cauchemar du pickpocket e L'ange, del 1975, e ai più recenti Le mangeur de coeurs, del 1987 (nato ancora una volta dalla collaborazione con Jodorowski, come Le sabre du Samourai), L'obsession e L'oiseleur, del 1990.

Marcel Marceau
Per molti anni il repertorio di Marceau è cambiato poco: ogni tanto qualche pezzo veniva tolto e se ne inseriva uno nuovo. Marceau si è sempre difeso energicamente dall'accusa di fossilizzazione e di ripetitività, mettendo avanti, da un lato, un'esigenza di divulgazione mondiale della propria arte e, dall'altro, sostenendo, non a torto, che un pezzo può venire ripetuto cento o duecento volte nell'arco di decenni e risultare sempre vivo e, in certo modo, diverso, sotto un'apparenza d'immutabilità. A un critico che, al solito, gli faceva presente il rischio della "meccanizzazione" insito nel ripetere all'infinito le stesse pantomime, Marceau rispose: "Lo si può evitare soltanto se ogni volta c'è un atto d'amore. Il mimo è come la musica. E poi, le pièces stesse evolvono. Così il Soldato è diventato buono, come il vino". In fondo, gli attori asiatici non lavorano diversamente.
In effetti, a ben guardare, il problema vero, nel caso di Marceau, non sta tanto nella fissità del repertorio quanto - semmai - nella già ricordata convenzionalità del linguaggio e in una certa cristallizzazione dello stile mimico, il quale ormai ha tutta la perfezione un po' manierata di un "classico" fuori dal tempo. Va dato atto a Marceau di essersi reso conto di questi rischi, a un certo punto, e di aver almeno tentato di porvi rimedio.
E così, mentre sul piano tematico ha cominciato - come dicevo prima - a spingersi sempre più risolutamente verso il surreale e il fantastico, sul piano dello stile il suo gesto è andato facendosi via via più sobrio, così come ancora più deciso è diventato il ricorso alle ellissi e alle sintesi simboliche. Nel corso degli anni Settanta ha anche accentuato la presenza della musica, in precedenza usata soltanto come sfondo sonoro o come contrappunto del movimento, con la conseguenza di spingere sempre di più la sua performance verso la danza. Non molto tempo fa ha dichiarato in proposito: "Amo il silenzio poiché offre tutta la sua ricchezza alla gravità dell'arte del mimo, ma non potrei concepire la mia arte senza l'utilizzazione della musica".
In ogni caso l'ultimo decennio ci ha restituito un Marceau pieno di iniziativa e che, mentre cerca di conservare con ogni mezzo il proprio posto nel pantheon del teatro contemporaneo, reagendo con grande energia alla sensazione di essere stato messo un po' da parte, si dedica fra l'altro con passione all'insegnamento nella sua scuola parigina, aperta nel 1978. La stagione 1990-91 lo ha visto attivissimo su più fronti (mentre gli veniva conferito il Prix Molière alla carriera): ha manifestato l'intenzione di ricostituire una vera e propria compagnia, ventisette anni dopo lo scioglimento dell'ultima; ha fondato una Casa del Mimo in un antico convento di Périgueux, nel sud-ovest della Francia; e soprattutto, da settembre a febbraio, ha tenuto il cartellone del Théâtre du Gymnase-Marie Bell con ben quattro spettacoli differenti, proponendo una specie di summa del suo repertorio con in più una dozzina di pezzi nuovi, cui contribuiscono (sia pure marginalmente) alcuni giovani attori usciti dalla sua scuola.
Dopo vari tentativi fallimentari, fra '78 e '90, il sogno di riavere una compagnia si è per lui realizzato nel '92, anno in cui è nata La Nouvelle Compagnie de Mimodrame Marcel Marceau. Insieme ad essa, il maestro francese ha proposto fino ad oggi tre mimodrammi (oltre, ovviamente, ai consueti programmi di pantomime): Le manteau (1993), rifacimento del capolavoro del '51, Une soir à l'Eden (1995) e Le chapeau melon (1997), ispirato a Charlot e alla sua patetica bombetta. Attualmente ha in preparazione, con Jodorowski, una nuova creazione il cui debutto è previsto per l'autunno di quest'anno.
Ho visto Marceau in scena l'ultima volta pochi anni fa. Mi ha colpito la sua sfida contro il tempo, la sua capacità di trovare nuove forme di energia e nuovi tipi di ritmo che gli consentissero di vincere ancora una volta questa sfida - come infatti accadde. Mi sono così tornate in mente le parole di due grandi maestri a proposito dell'attore da vecchio: quelle contemporanee di Jerzy Grotowski (scomparso nel gennaio 1999), a proposito dell'energia scenica come qualcosa che ha a che vedere con la qualità e non con la quantità, e quelle di sei secoli fa lasciateci dall'inventore del Nô, Zeami Motokiyo, quando parla della possibilità, invero inusuale, anche per il vecchio di conservare il "fiore" (hana) e porta ad esempio suo padre Kan'ami: "A quell'epoca [cioè quando morì, all'età di cinquantadue anni], egli aveva già lasciato l'insieme del repertorio ai principianti, ma benchè interpretasse, rilevandone con moderatezza il tono, delle cose facili, tanto più apparente ne era il fiore. Perchè era un fiore che gli era realmente appartenuto, il suo era sussistito, e se lui era diventato un vecchio albero dai rami e dal fogliame radi, il suo fiore non era appassito. Ecco un esempio convincente, che abbiamo avuto sotto gli occhi, del fiore che sussiste in un vecchio".

I principali scritti teorici di Marceau sono disponibili in due volumi italiani:
Mimo e mimi. Parole e immagini per un genere teatrale del Novecento, a cura di Marco De Marinis, Firenze, La Casa Usher, 1980;
Sull' arte del mimo. Riflessioni, a cura di Angela Vincenzi, con la collaborazione di Gaston Fournier-Facio, Montepulciano, Editori del Grifo, 1987.

Per quanto riguarda i principali contributi critico-documentari, cfr.:
H. von Pawlikowski-Cholewa, Le mime M. Marceau, Hamburg, Hans Hoeppner, 1955;
Herbert Jhering, M. Marceau, Berlin, Aufbau Verlag, 1956;
Jean Dorcy, À la rencontre de la mime et des mimes Decroux Barrault Marceau, Neuilly-sur-Seine, Cahiers de Dance et Culture, 1958;
Jan Kott, Marceau, ovvero la creazione del mondo, in Diario teatrale di Jan Kott (1968), Roma, Bulzoni, 1978;
Yves Lorelle, L'expression corporelle. Du mime sacré au mime de théâtre, Paris, La Renaissance du Livre, 1974;
G. e J. Verriest-Lefert, Marcel Marceau ou l'aventure du silence (intervista), Paris, Desclée de Brouwer, 1974;
Mimo e mimi, cit.; Guida al mimo e al clown, a cura di R. Balsimelli e L. Negri, Milano, Rizzoli, 1982; 
Thomas Leabhart, Modern and post-modern mime, New York, St. Martin's Press, 1989;
Marco De Marinis, Mimo e teatro nel Novecento, Firenze, La Casa Usher, 1993.


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