IL TEATRO A MANTOVA
TRA 1563 E 1630:
UNA MIRABILE GALLERIA DELL'EFFIMERO
ROBERTO TESSARI
Nel 1563, tra le celebrazioni festive che costellano il primo matrimonio di Vincenzo Gonzaga, fa spicco I'alIestimento -
curato dallo stesso autore - della commedia di Leone de Sommi I
suppositi, per la quale si sprecano i superlativi delle testimonianze coeve: l'opera viene definita "bellissima", la sua esecuzione risulta realizzata "con bellissimo parato et una sontuosissima scena con rari e bellissimi intermedi apparenti", i "concerti" che intervallavano il susseguirsi degli atti sarebbero stati "eccellentissimi", ma soprattutto la scenografia viene esaltata perché composta "con prospettive mirabili" e in quanto fulgente di inusitati
"lumi"1. Proprio quest'ultima notazione, nel rimandare inequivocabilmente al grande rilievo attribuito all'illuminotecnica dai celebri
Dialoghi del massimo "corago " del Cinquecento italiano, pone in causa il fattore precipuo che distingue la splendida fioritura di civiltà teatrale avvenuta a Mantova tra gli ultimi decenni del Cinquecento e i primi trent'anni del Seicento: l'emergere d'una teoresi e d'una pratica dello spettacolo in tutto degna del più rigoroso professionismo moderno, sorprendentemente remota dalle convenzioni e dai limiti cui s'erano consegnate le forme di aristocratico dilettantismo care alle rappresentazioni di tutte le altre corti italiane rinascimentali. Leone de Sommi aveva osato scrivere: "Affermo per vero, che più importi aver boni recitanti che bella commedia, et che 'l sia vero, abbiamo veduto molte volte riuscir meglio, al gusto de gl'ascoltanti, una commedia brutta, ma ben recitata, che una bella mal
rappresentata"2. Sono parole la cui eco, ben più tardi, sembra risuonare entro i pur diversamente intonati pronunciamenti polemici degli attori di mestiere della Commedia deIl'Arte: "avviene che molti gran litterati, [...] per non aver pratica della scena, distendano commedie con bello stile, [...] ma queste poi, messe su la scena, restan fredde, perché, mancando dell'imitazione del proprio, con una insipidezza e languidezza mirabile, [...] fanno stomacare altrui, né conseguiscono perciò il fine di dilettare”3.
La consonanza ideale tra il dotto ebreo mantovano e Flaminio Scala, entrambi convinti che fare buon teatro voglia dire innanzitutto curare al meglio tutte le
teknai specifiche della scena, non va ascritta al caso. Leone de Sommi, in realtà, è il massimo esponente di quella cultura israelita mantovana che, se da un lato annovera nomi illustri nell'ambito dello spettacolo e della musica (tra i quali Guglielmo da Pesaro e Salomone Rossi), dall'altro risulta composta anche da un pulviscolo di individualità o anonime o poco note che i documenti d'archivio ci mostrano impegnate tanto a realizzare gli spettacoli di corte quanto a esercitare diverse funzioni di prestatore d'opera nei confronti e delle feste ducali e delle compagnie di comici professionisti ospiti del ducato. Il chiaro ed elevatissimo
surplus di "buon mestiere" che è alla base del miracolo teatrale di Mantova tra il 1563 e il 1630
il quale, senza dubbio, va ascritto anche al fortunato proliferare di grandi talenti
poggia comunque sullo zoccolo duro del contributo (economico, e di competenza tecnica) offerto dall'Università ebraica, nonché sulle strette inter-relazioni tra quest'ultima e il mondo dei comici del l'Arte. Due fondamenta di eccezionale portata, entrambe costituitesi grazie alla singolare politica sociale, religiosa e culturale dei Gonzaga, che si manterrà invariata sino ai primi anni del Seicento. E che, a differenza di quelle seguite negli altri stati della penisola, sceglie di assumere posizioni di tolleranza e collaborazione nei confronti delle due societates, maledette per eccellenza, a diverso titolo, dal cattolicesimo controriformista: le antiche sparse comunità degli israeliti "deicidi", e la nuova microsocietà (costituitasi a partire almeno dal 1545) degli attori, allora ritenuti micidiali corruttori dei costumi e dell'etica cristiani, e sovente accostati a quanti seminano tra il popolo "eresie" dai più zelanti polemisti di svariati ordini religiosi.
Già durante il dominio di Guglielmo Gonzaga (1563-1587), si afferma come abitudine l'affidare agli ebrei dell'Università (che ebbero appunto in Leone de Sommi un autorevolissimo rappresentante) gli allestimenti degli spettacoli di corte: "La diligenza con cui questo impegno fu assolto è testimoniata dall'esistenza di una commissione appositamente istituita per il disbrigo di tutte le questioni, organizzative come finanziarie, relative alla preparazione e all'esecuzione degli spettacoli. Almeno a partire dal penultimo decennio del Cinquecento è dato incontrare, tra le carte della comunità, dei personaggi qualificati come 'assunti della repubblica per conto della comedia'. […] Oltre alle opere composte da Leone de Sommi e da Federico Follino e a qualche titolo rimasto privo di paternità, sappiamo che gli ebrei interpretarono nel 1563 i
Suppositi, nel 1568 Le due Fulvie di Massimo Faroni, nel 1584 gli
Ingiusti sdegni, nel 1606 gli Intrichi d'amore [...]. La quantità delle recite effettuate dagli israeliti è imponente. Come si è [...] potuto osservare, la parte più consistente della documentazione relativa è costituita dalle note di spesa giacenti nell'Archivio della Comunità, e riguarda soprattutto il cinquantennio che segue il 1580. Da tali testimonianze emerge come in quel periodo le rappresentazioni degli ebrei avessero cadenza pressoché annuale [...]. Generalmente era loro affidata proprio la 'commedia grande', lo spettacolo drammatico principale che veniva eseguito tra il giovedì e il martedì grasso; ma anche quando la commedia con intermezzi veniva allestita dai cortigiani era consuetudine che gli ebrei effettuassero comunque la loro esibizione comica”4.
Pressoché unica nel panorama italiano, la soluzione adottata dai Gonzaga, innegabilmente, dipendeva dalla scelta di far ricadere in gran parte sulla comunità israelita gli alti costi delle messinscene, ma era comunque in stretta relazione con la perizia tecnica ed artistica di cui i suoi membri avevano saputo dar prova. Come abbia potuto formarsi e consolidarsi questa perizia non ci è dato sapere con assoluta certezza, ma è evidente che le sole prove indiziarie utili, qui, a sondare l'enigma additino quale provabilissimo terreno di coltura gli stretti e molteplici rapporti tra ebrei mantovani e comici dell’Arte ospiti della città almeno a partire dal 1562. Quando Luigi Rogna, nel 1567, intona alti lai
contro il disordine provocato dalla presenza in contemporanea delle troupes di Vincenza Armani e della romana Flaminia significativamente scrive: “É cosa incredibile il concorso delle genti d'ogni sorte che hanno ogni dì l'una e l'altra di queste due compagnie di comici. Pensi Vostra Signoria che gli artisti, et gli ebrei lasciano star di lavorare per andar a sentirli”5 Ma l'interesse dei sudditi israeliti non si esaurisce certo in una travolgente passione per gli spettacoli degli attori professionisti. Abbondano, soprattutto dal 1588 in poi, i documenti che li indicano come esclusivi fornitori di costumi, maschere e manufatti vari destinati al trucco dei grandi e piccoli successori di Vincenza a
Flaminia6. E, quel che più conta, troviamo, addirittura, un personaggio del calibro di Leone de Sommi impegnato in un progetto che, se mai fosse andato a buon fine, lo avrebbe trasformato in gestore (per non dire "impresario") delle loro
tournées mantovane, secondo quanto risulta dalla supplica che indirizzò, probabilmente senza esito positivo, al duca Guglielmo il
15 aprile 1567: "Il devotissimo, benché indegno, et humil servo di Vostra Eccellenza Leone de Sommi hebreo [...] s'induce a chiederle per singular gratia et favore un decreto di poter egli solo, per anni 10, dar stanza in Mantova da rappresentar commedie a coloro che per prezzo ne vanno
recitando"7. Dove, se da un lato si afferma con chiarezza la lungimiranza imprenditoriale del grande corago, dall'altro risulta presumibile il suo interesse, oltre che a sfruttare in proprio l'enorme successo dei comici, a studiare con attenzione le specifiche teknai che lo avevano reso possibile, per valersene negli spettacoli da lui allestiti.
In effetti, la felicissima congiuntura che viene a stabilire una rete di fertili inter-relazioni tra colti ebrei mantovani e comici dell'Arte dipende in misura preponderante dal favore sempre dimostrato da Vincenzo Gonzaga nei confronti delle compagnie professioniste, che culmina col rendere il ducato padano
- alla fine del Cinquecento - la meta privilegiata senza riserve dalle tournées delle troupes più valide e famose: "Sebbene la concessione delle licenze per le recite in città fosse una prerogativa del duca, a partire dal 1580 circa le compagnie preferirono indirizzarne la richiesta al principe, confidando evidentemente nella sua inclinazione favorevole [...]. Fu il caso, per esempio, di Drusiano Martinelli nell'ottobre del 1580, degli Uniti nell'aprile del 1584, dei Gelosi nel gennaio del 1586; ed è al principe [...] che si rivolse Isabella Andreini per collocare a corte una delle tante figlie. Ancora più frequenti, del resto, erano le convocazioni che lo stesso Vincenzo indirizzava ai comici, a compagnie intere come a personaggi singoli: ai Confidenti nel luglio del 1582 e nell'aprile del 1583, agli Uniti nel giugno del 1584; a Francesco e IsabeIIa Andreini e poi a Giulia Bolico sempre nell'aprile del 1583, giusto per citare alcuni
esempi"8. D'altro canto, per quanto concerne il ricco ambito della più lata teatralità mantovana, i gusti artistici coltivati da Vincenzo marciano in parallelo con talune originali scelte della politica amministrativa seguita da Guglielmo Gonzaga. Come quella che, nel 1580, aveva indotto il duca a stabilire per legge forme di organizzazione e di controllo dello spettacolo sorprendentemente moderne, affidandone tutte le manifestazioni al controllo d'un suo preposto: "Instrutti dell'informazione che ha il giocondo nostro Filippo Angelone di tutti li comici mercenari, zarattani et cantinbanchi, lo eleggiamo per superiore ad essi in tutti li nostri stati, sì che alcuno di loro, o solo o accompagnato, non habbia ardire di recitare commedie o cantare in banco, vendendo ballotte o simili bagattelle, senza sua licenza in
scritto"9. Sotto il titolo di "superiore", Filippo Angeloni musico di corte, confermato nel suo incarico di sovrintendente da Vincenzo il 3 febbraio 1588
- non aveva soltanto funzioni di controllore "delle attività spettacolari svolte nel Mantovano". Tra i suoi doveri precipui figuravano quelli "di contatti (e contratti) con le compagnie, di scorta nei loro viaggi verso Mantova, di gestione dei compensi per conto del duca". Il suo ambito di azione "Poteva addirittura estendersi al reperimento dei materiali di scena. Il 15 agosto 1588, infatti, l'Università degli ebrei consegnava una gran quantità di 'robbe’ a Messer Giulio spagnolo della compagnia dei Gelosi [...] per comandamento del serenissimo signor duca nostro, per detto di messer Filippo cantore”10.
La politica culturale e amministrativa dei Gonzaga, dunque, se da un lato rende Mantova supremo centro di attrazione per le migliori compagnie italiane di attori professionisti (creando le condizioni ideali affinché maturino in loco i presupposti di un'alta civiltà dello spettacolo, entro la quale l'Università ebraica svolse un ruolo decisivo), dall'altro si preoccupa di dare forma a efficaci strumenti di gestione la cui portata deve investire l'intero complesso del "commercio teatrale" presente sul territorio: dai cerretani,e dai cantinbanchi di piazza, agli illustri e meno illustri "mercenari" che si impegnano nel "recitar commedie" vuoi a corte vuoi nelle "stanze" private. Ed è appunto sulla realtà d'una simile politica che si struttura quell'eccezionale status mantovano del periodo di Vincenzo cui, ancora nel 1675, Scipione Agnelli poteva guardare con sensi di iperteso moralismo scandalizzato: "Per tutto si vedevano feste, corsi, giostre, maschere, conviti, tornei, commedie, musiche, delizie, balli e danze [...]. In Mantova stava collocato il regno de' piaceri e de' trattenimenti [...]. Le veglie co' giochi liberi, le commedie con parole e attioni piene dell'arti d'Ovidio; l'Andreine e le Florinde sopra le scene, le cantatrici ne' palagi con un lamento d'Armida o d'Arianna e co' versi d'Angelica e Medoro, e le feste e i balli [...] discacciavano per le case e palagi l'onestà e introducevano i licenziosi
costumi11. Un vero e proprio trionfo dello spettacolo, le cui manifestazioni più fortunate permeavano il gusto dei cittadini sino al punto da spingerli a circondarsi delle loro presenze simboliche ancora dentro le mura domestiche, come attesta la recente scoperta delle grottesche di Palazzo Berla: unica testimonianza italiana di affreschi cinquecenteschi dedicati alle maschere della Commedia dell'Arte, per i quali è stata proposta un'ipotesi di datazione agli anni compresi tra il 1578 e il
158512.
Nel 1599, la carica di "superiore" preposto al controllo di attori e ciarlatani veniva dotata di più ampi poteri, ed era conferita a Tristano Martinelli: il primo comico che, stando allo stato attuale delle conoscenze, impersonò sulle scene la maschera di Arlecchino. Questa decisione, assunta da Vincenzo, si configura come simbolo eloquente della sintesi di fattori determinanti nel concorrere a qualificare il ducato
capitale per eccellenza dello spettacolo tardocinquecentesco: una politica culturale di oculata apertura verso comunità e gruppi allora di norma ritenuti spregevoli e pericolosi; una amministrazione innovativa nei confronti del mondo dello spettacolo, attenta ad accogliere e a organizzare tutte le sue manifestazioni entro il quadro d'una apposita legislazione e d'una ben calcolata economia
gestionale; una rapida fioritura, sulla scorta di simili premesse, d'una impressionante sequenza di talenti locali d'eccezione L’ebreo Leone de Sommi e il cristiano Tristano Martinelli
- l'uno eccelso corago del teatro di corte, l'altro massimo esponente della Commedia dell'Arte, ed entrambi figli dell'identico contesto territoriale
- possono essere considerati la diade emblematica delle componenti-base che concorsero al suo sbocciare). Ma proprio il prestigioso Arlecchino che, nel 1599, verrà nominato "superiore", l'anno precedente indirizzava a Vincenzo una missiva donde è possibile rilevare la prima traccia d'una ulteriore novità da ascriversi a merito dei Gonzaga: "Avendo inteso da mio fratello come che la Vostra Altezza serenissima gli à ordina[to] mi scriva che io lassa la mia compagnia et che venga in la sua, perché è suo volere io non mancherò di eseguire il voler di Vostra Altezza con tuto il core, ma bisogna rimediare a certi particulari [...]. La saperà che io son obligato per scritura di andare a Fiorenza [...]. Per desobligarmi [...] Vostra Altezza sarà servita farmi scrivere per uno di suoi quatro righe in nome di Vostra Altezza che si vol servire di
me"13.
La lettera testimonia senza ombra di dubbio che Vincenzo Gonzaga aveva deciso di costituire, per la stagione teatrale 1598-1599, una compagnia di attori professionisti alle sue dirette dipendenze: approfittando della presenza a Mantova di un'équipe condotta da Drusiano Martinelli, fratello di Tristano, gli era sembrato utile valersi del comico per contattare il più illustre 'divo'. L'operazione andò in porto. E nel decreto di conferimento della carica di "superiore" ad Arlecchino ci si preoccupò, da parte delle autorità, di sottolineare una netta distinzione tra gli obblighi cui dovevano soggiacere le
troupes private ospiti del ducato e quelli riguardanti la "compagnia dei comici che ci serve di presente et ci servirà nell'avvenire". Siamo davanti, dunque, all'inequivocabile atto di nascita d'un fenomeno capitale nella storia della Commedia dell'Arte. Mentre i migliori esponenti di quest'ultima
- a partire dagli anni Ottanta del Cinquecento - calano sulle proprie associazioni la maschera di etichette distintive che alludono non già a ragioni di imprese commerciali, bensì a pretese da disinteressata società accademica ("Comici Gelosi", "Comici Confidenti" eccetera), prende avvio una sorta di "moto contrario", che induce i signori dei principali ducati padani a porre sotto tutela aristocratica gli attori professionisti, assumendoli in qualità di stipendiati entro vere e proprie
compagnie ducali,14 alle dirette dipendenze dell'una o dell'altra corte. Una simile "statalizzazione" del teatro
- che tanta importanza avrà nella storia secentesca dell'Arte, e che nasce dall'intento di costituire delle sorti di super-
troupes d'altissima qualità (riunendo i migliori attori dispersi in diverse compagini private)
- si realizza sulla scorta del progetto meditato e messo in opera da Vincenzo, e trova il suo prototipo
nell'ensemble di comici da lui riunito e diretto a Mantova almeno, per quanto ne sappiamo, a partire dal 1595. Una decisione storica, la quale, se da un lato imprime il suggello estetico del gusto del principe sul ricchissimo e variegato mondo degli spettacoli che il potere offre ai sudditi, dall'altro risulta dar vita a una realtà che lo stesso potere decide di usare come pedina fondamentale nel gioco dei rapporti diplomatici con gli stati più potenti
d'Europa. Nel 1602, diviene capo della compagnia ducale mantovana il celeberrimo Pier Maria Cecchini. Nel 1608, l'attore e i suoi compagni sono inviati presso la corte francese, anche per illuminare di nuova luce tra i governanti d'oltralpe l'immagine dei Gonzaga. Riferendo della loro
tournée, Giovanni de' Medici può scrivere alla duchessa di Mantova: "Pier Maria Cecchini detto Fritellino, mandato qua capo di questa compagnia [...] dall'Altezza Vostra per servire a queste Maestà, si porta così egregiamente bene, sì in recitando come in reggendo et governando tutta la compagnia, che queste Maestà non possono restarne più satisfatte di quello che elle ne
sono"15.
Al di là dei suoi evidenti risvolti di scelta finalizzata anche a una politica culturale concepita per accrescere il prestigio della dinastia sul piano dei rapporti tra stato e stato, la singolare invenzione gonzaghesca di acquisire e di ri-comporre, nell'ideale galleria d'una
troupe tutta studiata in funzione di esibirne il fior fiore, i migliori talenti della Commedia dell'Arte, sembra disegnare l'immagine d'una sorta di collezionismo dell'effimero teatrale: affatto inedito, eppure perseguito con intenti e moduli operativi non dissimili da quelli del tradizionale collezionismo di quadri, sculture eccetera. La compagnia guidata da Pier Maria Cecchini, in effetti, risulta essere una mirabile collezione di 'pezzi rari' del più raffinato professionismo scenico. E la si esibisce all'ammirazione della corte francese. E si attende con ansia una qualche notizia su come abbiano reagito gli illustrissimi spettatori, dopo aver valutato sia l'eccellenza artistica dei singoli "pezzi" sia il loro modo di comporsi in un ben studiato impianto d'insieme. Del resto, la pervicace cura posta da Vincenzo
- a partire dalle trattative con Drusiano e Tristano Martinelli - nel realizzare un simile studiolo delle
meraviglie del recitare all'improvviso trova esatto riscontro nella quasi maniacale insistenza con cui il duca insegue, per ben quattordici anni, l'obiettivo della messinscena mantovana del
Pastor fido. Quasi si trattasse d'una rara primizia da possedere a qualsiasi costo, il duca addirittura perseguita Guarini (sin da prima che la tragicommedia pastorale sia terminata) onde rendersi padrone del suo inverarsi in effimero prodigio scenico. E che proprio il piacere di tradurre al meglio in realtà
questo progetto sia termine esclusivo di tanta tensione, lo testimonia il tormentato e sorvegliatissimo percorso d'approccio alla messinscena, con le complesse prove di allestimento del 1591, del 1592, del 1593: destinate a culminare nel risultato finale del 1598, cui si approda attraverso inusitate strategie di sperimentazione e verifica (come quelle poste in opera nel 1591 e nel 1592, quando si arrivò a far interpretare in sequenza la parte d'un solo personaggio da tre attori diversi: "per sceglierne poi il migliore et più
atto"16).
A ben guardare, infatti, la qualità specifica del grande teatro che si realizza a Mantova tra Cinque e Seicento consiste eminentemente nel comporsi d'un vero e proprio mirabile
laboratorio specialistico di alto esercizio delle teknaí dell'effimero spettacolare. Il che spiega l'emergere e l'eccellenza della teoresi d'un Leone de Sommi. Ma soprattutto rende ragione del meditato e articolato piano di lavoro che i Gonzaga sembrano perseguire attraverso le scelte che li inducono a favorire su ogni versante la crescita di tutte le competenze necessarie a questo fine: dagli intensi rapporti con le migliori compagnie dell'Arte, al costituirsi della
troupe ducale; dalla razionalizzazione del mercato delle rappresentazioni alla crescita d'una autoctona cultura degli allestimenti; dall'impiego dell'Università ebraica, ai contatti coni più prestigiosi drammaturghi e musicisti contemporanei condotti nella prospettiva di dar vita a un esemplare
teatro di corte. Sino a ottenere un quadro d'insieme singolarmente organico, anche sotto il profilo d'una moderna gestione organizzativa dell'intero mondo dello spettacolo mantovano: un "superiore" che si occupa del mercato dell'effimero popolare (privilegiando le produzioni dei professionisti, ma insieme regolando persino il pulviscolo di eventi agitato da cerretani e ciarlatani); la raffinata macchina d'un
teatro di corte, al cui buon funzionamento e alle cui articolazioni concorrono tre motori essenziali (la compagnia dell'Arte ducale; gli interventi degli artisti israeliti; la sovrintendenza di grandi organizzatori, grandi apparatori e
- all'occorrenza - esperti drammaturghi o musicisti del calibro di Federico Follino, Antonio Maria Viani, Gabriele Bertazzolo, Alessandro Striggi ed Ercole Marliani).
Tanto era necessario affinché potesse realizzarsi in condizioni ideali quella prestigiosa
galleria dell'effimero spettacolare alla cui collezione - di certo sostenuta col massimo impegno da Vincenzo I
- concorrono in diversa misura, da Guglielmo a Vincenzo Il, i duchi che si susseguono alla guida dello stato padano sino al 1630. Ed è un'ideale raccolta di capolavori, tutti destinati a consumarsi
- lungo un profluvio di armoniche fusioni tra complesse e diversificate
teknai d'arti sceniche - nell'arco della durata d'un evento, la quale sembra fondarsi innanzitutto sulla volontà di accogliere in sé campionature eccelse delle più significative tendenze emergenti dello spettacolo tra Cinque e Seicento. Il "repertorio" dei grandi spettacoli mantovani viene così a costituire un catalogo la cui prima sottosezione ideale annovera un
unicum genialmente individuato: l'inedita versione aristocratica (curata dal principe in persona) degli allestimenti dei prestigiosi professionisti dell'Arte. Ma il cui vertice d'interesse, poi, consiste nella lunghissima rassegna delle rappresentazioni e delle feste di corte, sempre concepite al fine di esibire la perfetta esecuzione d'un teatro esemplare concepito quale sequenza di svolte innovative d'alta portata. Il guariniano
Pastor fido, in questo senso, è solo voce eminente d'un catalogo che annovera tesori (e citiamo solo i più vistosi) di non minore importanza: come le capitali prime assolute dei tassiani o pseudotassiani
Intrichi d'amore del 1584; (forse) de La Filli di Sciro di Bonarelli, nel 1604;.
dell'Idropica, isolata incursione dello stesso Guarini entro il genere commedia, portata in scena
- tra le meraviglie meccaniche di Viani e Bertazzolo - dalla compagnia dei comici Fedeli con gli intermezzi di Chiabrera e le musiche di Monteverdi, nel 1608.
A partire dai primi anni del Seicento (e, in particolare, dai festeggiamenti per le nozze di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia), la mirabile galleria dell'effimero mantovana inaugura, dopo quelli dedicati al comico e al tragicomico pastorale, il settore sul quale
-anche qui anticipando un gusto destinato ad affermarsi vieppiù nel corso del secolo
- si accentrerà di poi al massimo l'attenzione dei suoi "curatori": l'allora cosiddetta
commedia in musica, ovvero la novissima versione d'un tragico di sintesi tra
verbum e melos delineatasi a partire dalla celeberrima Euridice fiorentina di Rinuccini e Peri. Già nel 1607 era stata realizzata la prima
dell'Orfeo di Alessandro Striggi e Claudio Monteverdi e, durante il carnevale dell'anno successivo, aveva avuto luogo una rappresentazione della
Dafne di Rinuccini e Marco da Gagliano. Ma proprio al centro del ciclo festivo organizzato nel 1608 si accampa l'allestimento dell'Arianna di Rinuccini e Claudio Monteverdi, sulla cui scia di successo verrà ad allinearsi un'impressionante sequela di fortunati
exploits. Tra gli altri: nel 1611, il Rapimento di Proserpina di Ercole Marliani e Giulio Cesare Monteverdi (messo in scena dai Gonzaga a Casale in onore del compleanno dell'infanta Margherita); nel 1615, la
Galatea di Gabriello Chiabrera e Giulio Cesare Monteverdi; nel 1620, l'Andromeda di Ercole Marliani; nel 1622, il
Sacrificio d'Isac di Scipione Agnelli; nel 1623, una Favola di Siringa
della quale non ci sono pervenuti i nomi degli autori; nel 1626, l'Europa di Baldovino Monte Simoncelli. Si tratta
- tra allestimenti compiuti, e progetti rimasti senza esito,17 - d'una 'collezione' mirabolante per quantità e qualità dei "pezzi" che annovera: tale da rivelare senza mezzi termini (oltre che l'autentica passione per il genere nutrita da Ferdinando) la pionieristica funzione promozionale svolta dai Gonzaga nei confronti d'una forma di spettacolo le cui fortune, nel corso del secolo, avrebbero soppiantato quelle della Commedia dell'Arte e di ogni altra fenomenologia drammatica barocca.
La splendida summa esemplare dell'effimero scenico raccoltasi a Mantova tra il 1563 e il 1630 (nella quale vanno compresi ancora coreografie, tornei, giostre, "battaglie sul lago" e altre attrazioni tipiche della festa di corte), ci offre dunque un catalogo la cui prima lettura lascia indovinare il disegno d'un meditato ordinamento per generi di tutte le tipologie spettacolari in auge nell'arco di quel periodo: la commedia improvvisa, la commedia regolare, gli intermezzi, la tragicommedia in musica, il nuovo tragico musicale, la danza. Una raccolta esaustiva, insomma: non però di intonazione
museale (se all'aggettivo intendessimo attribuire la valenza d'una fredda rendicontazione di reperti ormai consegnatisi all'inattualità della storia compiuta), ma tesa a inseguire le vive metamorfosi del presente. Dietro il progetto messo in opera dai Gonzaga, traspare
- quasi filigrana d'una pagina - non l'accademica tripartizione rinascimentale del teatro quale complesso formato in esclusiva da commedia, tragedia e dramma satiresco, bensì la nuova visione d'un mondo dello spettacolo
in movimento: processo d'una dynamis proteiforme, dove - dai fantasmi del distinzionismo neoclassico
- si agitano per emergere ibridazioni tanto inedite quanto vive (come le farse in maschera degli attori professionisti, il gusto di contaminazioni tipico della tragicommedia, il dramma in musica). Se poi volessimo considerare a fondo le tematiche più frequenti, oppure quelle di più singolare peregrinità, degli spettacoli meglio graditi alla committenza mantovana, potrebbe nascere la tentazione di voler individuare nella sua galleria di meraviglie effimere, non solo un preciso progetto di ordinamento per categorie, ma anche un nascosto disegno forse volto ad affermare sottili intrecci di simboli. E, qui, pensiamo soprattutto all'insistere di tante "commedie in musica" su mitologemi e figure perlopiù allusive tanto al viaggio negli inferi quanto a particolarissime condizioni dell'Amore e del Femminile (Orfeo, Proserpina, Arianna, Dafne, Andromeda, Europa eccetera). Pensiamo, ancora, al curioso canovaccio del Ballo delle
ingrate (1608) di Rinuccini e Monteverdi, incentrato sulla melanconica favola di donne ritrose in amore cui, una volta morte, Plutone concede di rivedere per un solo giorno la luce del sole. Elementi, tutti, che sembrano additare silenziosamente un plesso araldico intonato a risonanze insieme virgiliane, ovidiane, orfiche e neoplatoniche, e comunque ruotante attorno ai percorsi misterici che congiungono e disgiungono Terra e Ade, Eros e
Thanatos, Armonia e Disarmonia tra uomo e donna.
1 Relazione di un viaggio da Trento a Milano fatto nell’anno 1563 dagli arciduchi d’Austria Rodolfo ed
Ernesto, in “Archivio trentino”, VIII (1889), p. 85.
2 Leone de’ Sommi, Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni
sceniche, a cura di F. Marotti, Milano 1968, p. 46.
3 F. Scala, Prologo della commedia del Finto Marito, in F. Marotti, G. Romei,
La professione del teatro, Roma 1991, p. 61.
4 C. Buratelli, Spettacoli di corte a Mantova tra Cinque e Seicento, Firenze 1999, p. 150 e pp. 165-166.
5 Lettera di Luigi Rogna a Pietro Martire Cornacchia in data 6 luglio 1567, ASMn, AG, b. 2577, c. 178r.
6 Burattelli, Spettacoli, cit., p. 146.
7 La lettera è riferita in A D'Ancona, Origini del teatro italiano. Libri tre, con due appendici sulla rappresentazione drammatica del contado toscano e sul teatro mantovano nel secolo XVI, vol. 11, Torino 1891, p. 405.
8 Burattelli, Spettacoli, cit., p. 184.
9 A. Bertolotti, Musici alla corte dei Gonzaga in Mantova dal secolo XV al XVIII. Notizie e documenti raccolti negli archivi
mantovani, Milano 1890, p. 75.
10 Burattelli, Spettacoli, cit., pp. 187-188.
11 S. Agnelli, Gli annali di Mantova, scritti da Scipione Agnelo Maffei, vescovo di Casale, Nicolò e fratelli
Viola, Tortona 1675, pp. 931-932.
12 Cfr. U. Artioli, Le grottesche di Palazzo Berla, in "Primafila", n. 52, febbraio 1999, pp. 20-25.
13 La lettera di Tristano Martinelli, in data 2 maggio 1598, è riprodotta in Burattelli, Spettacoli, cit., p. 189.
14 Sul fenomeno delle compagnie ducali, cfr. R. Tessari, Commedia dell’Arte. la Maschera e
L’Ombra, Milano 1981, pp. 62-72.
15 Lettera di Giovanni de' Medici a Eleonora de' Medici in data 8 marzo 1608, ASMn, Autografi, b.10, c. 228r.
16 Lettera di Annibale Chieppo a Vincenzo Gonzaga del 29 novembre 1591, ASMn, AG, b. 2654, c.n.n.
17 "agli allestimenti documentati bisogna almeno aggiungere quelli progettati e poi lasciati in sospeso, come una nuova replica dell'Orfeo a Casale prevista dal principe Francesco per la primavera del 1610, oppure la rappresentazione della Favola di Cibele ed Ati, che Francesco Rasi aveva invano scritto e musicato in vista delle nozze di Ferdinando, il cui testo poetico sarebbe stato pubblicato a Venezia nel 1619 nella Cetra di sette corde; ancora, le repliche dell'Adone di Jacopo Cicognini e Jacopo Peri e dell'Arianna per festeggiare nel 1620 il ventisettesimo compleanno della duchessa, oppure quella del Medoro di Andrea Salvadori e Marco da Gagliano nel 1622 o 1623; la rappresentazione, sempre intorno al 1622, della Regina Sant'Orsola degli stessi autori, e infine quella della Finta pazza Licori di Giulio Strozzi e Claudio Monteverdi e dell'Armida, sempre di Monteverdi, di cui si era trattato a Mantova nel corso del 1627" (Burattelli,
Spettacoli, cit., .46).
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